mercoledì 29 gennaio 2014

Verso una "open review"?

Il 27 gennaio, Palgrave Macmillan, casa editrice attiva soprattutto nelle scienze umane e sociali, ha annunciato l’avvio di un nuovo sistema di peer review “aperto e trasparente” attraverso cui valutare le monografie di futura pubblicazione. Per sei settimane, una selezione di dieci proposte editoriali verrà sottoposta al vaglio della comunità scientifica, intesa nel senso più ampio possibile: chiunque abbia “qualcosa con cui contribuire” – dallo studente al professore ordinario – avrà modo di commentare le proposte editoriali e (dove possibile) alcuni capitoli dei libri. L’unica limitazione sarà che i commenti – a cui gli autori avranno modo di rispondere in prima persona – dovranno necessariamente essere firmati con nome e cognome, in modo da garantire trasparenza ed evitare possibili abusi. Per favorire la più larga partecipazione possibile, sarà possibile inviare il proprio feedback via Facebook, Twitter o Wordpress.

Quello di Palgrave è un esperimento innovativo, anche se con alcune importanti limitazioni: le proposte editoriali in discussione, infatti, sono state sottoposte ad una valutazione preventiva da parte non solo della casa editrice, ma anche di alcuni peer-reviewers tradizionali (scelti dalla redazione e anonimi); inoltre, gli autori hanno già sottoscritto un contratto con Palgrave, per cui il processo di open review non avrà lo scopo di decidere se pubblicare o meno le monografie, ma semplicemente di migliorarle ulteriormente, avviando una discussione pubblica. Infine, l’iniziativa ha un carattere sperimentale ed è di durata ben delimitata: un’estensione oltre le sei settimane di prova non è al momento in programma.

Uno dei meriti di questo esperimento è quello di indurre a una riflessione sui limiti del processo di peer-review tradizionale – processo affermatosi da molti decenni a livello internazionale, ma che solo di recente ha preso campo in Italia, venendo spesso dipinto come una sorta di panacea per i mali dell’accademia più tradizionalista e provinciale. All’apparenza, la peer-review funziona in un modo piuttosto semplice: ogni qual volta la redazione di una rivista, o di una casa editrice, riceve una proposta per una monografia o un articolo, la sottopone al vaglio di alcuni esperti (in genere due o tre), che ne valutano la solidità e suggeriscono se pubblicarla (e nel caso, con quali modifiche) o meno. Il processo di peer-review, se da un lato sembra rendere le decisioni editoriali meno arbitrarie, dall’altro non è garanzia assoluta di qualità o “oggettività”: non solo c’è tutta una casistica di articoli accettati per la pubblicazione a dispetto di evidenti errori e scopiazzature; ma soprattutto, il fatto che i reviewers sono in genere scelti tra gli studiosi già affermati in un determinato campo implica che le proposte più iconoclaste possano essere rigettate per partito preso, a dispetto della loro validità – un problema che sembra particolarmente pressante nel campo delle scienze umane e sociali, in cui le scelte interpretative sono tanto fondamentali quanto soggettive.

Allargando la discussione a un pubblico più ampio (e non selezionato a priori), la open review proposta da Palgrave potrebbe essere un sistema per ovviare in parte a questi problemi. In realtà, nel campo delle scienze naturali, esperimenti di questo genere sono già stati avviati: già nel 2006, la rivista Nature aveva lanciato un primo tentativo di open review, con tassi di partecipazione a dire il vero non molto incoraggianti (solo il 5% degli autori prese parte all’iniziativa, e poco più di metà degli articoli vennero effettivamente commentati). Un’altro dubbio che sorge spontaneo è quello relativo non tanto alla quantità, ma alla qualità dei commenti: vista il carattere spesso aggressivo delle discussioni su internet, l’obbligo di pubblicare il proprio nome sarà sufficiente ad evitare forme di “trollaggio” accademico? E infine, fino a che punto gli autori delle monografie (già certi della pubblicazione) saranno poi disponibili a revisionare il proprio lavoro sulla base della open review? Grazie all’esperimento lanciato da Palgrave, forse tra sei settimane ne sapremo qualcosa in più.

giovedì 27 giugno 2013

Sulla crisi degli studi umanistici

"Addio facoltà umanistiche, non servite più, i giovani disertano le aule di Storia, di Filosofia, di Lettere, per non parlare di Sociologia." Questo è il grido d'allarme lanciato oggi sulle colonne di Repubblica. I dati sono effettivamente sconfortanti: in Italia, si parla di un calo del 26,8% nelle immatricolazioni a corsi di laurea umanistici nell'ultimo decennio, a fronte di un dato sostanzialmente stabile (-3,3%) per l'area scientifica. Si tratta di una tendenza che va ben oltre i confini italiani: negli Stati Uniti la percentuale dei laureati nel settore umanistico è calato dal 14% del 1966 al 7% del 2010; in Inghilterra, il numero di domande di iscrizione a corsi di carattere storico-filosofico è calato di quasi il 5% tra il 2007 e il 2012, mentre quelle a corsi in business sono aumentate del 9%. Alla crisi delle iscrizioni corrisponde una drastica riduzione del numero delle cattedre, dovuta al mancato turnover o addirittura - specialmente all'estero - al tentativo di chiudere interi dipartimenti.

Questa crisi ha già da qualche anno innescato un dibattito piuttosto intenso, specie nel mondo anglosassone, ad esempio attraverso la campagna Humanities matter o gli interventi di intellettuali di spicco come Stefan Collini. Alla radice della crisi dei saperi umanistici ci sarebbe l'affermazione di una concezione neoliberista dell'istruzione universitaria, per cui l'unico valore di una laurea sarebbe quello economico (in termini sia di opportunità lavorative che capacità di generare profitti). Questa mentalità sarebbe rafforzata, tra i futuri studenti, dai costi sempre più elevati dell'istruzione stessa (prima di tutto a livello di tasse universitarie), che farebbero di una laurea umanistica un "investimento" poco remunerativo.

L'argomento classico in difesa degli studi umanistici è quello che ne sottolinea l'importanza per lo sviluppo di creatività, flessibilità mentale e spirito critico. Le Humanities sarebbero imprescindibili per l'affermazione di principi fondamentali, primo fra tutti la democrazia. A questa riflessione sul valore intrinseco dei saperi umanistici si associa spesso la considerazione per cui i corsi di laurea umanistici andrebbero concepiti in forma "disinteressata" (in quanto aventi un valore in sé), non "utilitaristica" (per cercare un guadagno, o anche semplicemente un lavoro). Si tratta di una prospettiva, quest'ultima, che rischia però paradossalmente di trasformare gli studi umanistici in una "riserva indiana" per giovani di estrazione sociale medio-alta, come già avviene in Inghilterra.

In realtà, una delle questioni centrali che viene spesso trascurata è quella della crisi di quelle professioni intellettuali che sono (anzi, sarebbero...) lo sbocco naturale per chi decide di laurearsi in una disciplina umanistica: l'insegnamento nelle scuole medie e superiori prima di tutto, ma anche in biblioteche, musei e archivi - tutte istituzioni fortemente colpite dalle politiche di taglio alla spesa pubblica. Anche nel settore privato, la crisi dell'industria culturale (editoria, musica, cinema) si fa sentire pesantemente, rendendo sempre meno sostenibili quei modelli di business che si fondano esclusivamente su logiche di profitto. Ed è su questo aspetto - vale a dire, sul mancato riconoscimento pubblico del valore sociale di tutte quelle professioni che si fondano sui saperi umanistici - che andrebbe forse spostata l'attenzione, se si vuole cercare di evitare la "fine delle Lettere".