giovedì 27 giugno 2013

Sulla crisi degli studi umanistici

"Addio facoltà umanistiche, non servite più, i giovani disertano le aule di Storia, di Filosofia, di Lettere, per non parlare di Sociologia." Questo è il grido d'allarme lanciato oggi sulle colonne di Repubblica. I dati sono effettivamente sconfortanti: in Italia, si parla di un calo del 26,8% nelle immatricolazioni a corsi di laurea umanistici nell'ultimo decennio, a fronte di un dato sostanzialmente stabile (-3,3%) per l'area scientifica. Si tratta di una tendenza che va ben oltre i confini italiani: negli Stati Uniti la percentuale dei laureati nel settore umanistico è calato dal 14% del 1966 al 7% del 2010; in Inghilterra, il numero di domande di iscrizione a corsi di carattere storico-filosofico è calato di quasi il 5% tra il 2007 e il 2012, mentre quelle a corsi in business sono aumentate del 9%. Alla crisi delle iscrizioni corrisponde una drastica riduzione del numero delle cattedre, dovuta al mancato turnover o addirittura - specialmente all'estero - al tentativo di chiudere interi dipartimenti.

Questa crisi ha già da qualche anno innescato un dibattito piuttosto intenso, specie nel mondo anglosassone, ad esempio attraverso la campagna Humanities matter o gli interventi di intellettuali di spicco come Stefan Collini. Alla radice della crisi dei saperi umanistici ci sarebbe l'affermazione di una concezione neoliberista dell'istruzione universitaria, per cui l'unico valore di una laurea sarebbe quello economico (in termini sia di opportunità lavorative che capacità di generare profitti). Questa mentalità sarebbe rafforzata, tra i futuri studenti, dai costi sempre più elevati dell'istruzione stessa (prima di tutto a livello di tasse universitarie), che farebbero di una laurea umanistica un "investimento" poco remunerativo.

L'argomento classico in difesa degli studi umanistici è quello che ne sottolinea l'importanza per lo sviluppo di creatività, flessibilità mentale e spirito critico. Le Humanities sarebbero imprescindibili per l'affermazione di principi fondamentali, primo fra tutti la democrazia. A questa riflessione sul valore intrinseco dei saperi umanistici si associa spesso la considerazione per cui i corsi di laurea umanistici andrebbero concepiti in forma "disinteressata" (in quanto aventi un valore in sé), non "utilitaristica" (per cercare un guadagno, o anche semplicemente un lavoro). Si tratta di una prospettiva, quest'ultima, che rischia però paradossalmente di trasformare gli studi umanistici in una "riserva indiana" per giovani di estrazione sociale medio-alta, come già avviene in Inghilterra.

In realtà, una delle questioni centrali che viene spesso trascurata è quella della crisi di quelle professioni intellettuali che sono (anzi, sarebbero...) lo sbocco naturale per chi decide di laurearsi in una disciplina umanistica: l'insegnamento nelle scuole medie e superiori prima di tutto, ma anche in biblioteche, musei e archivi - tutte istituzioni fortemente colpite dalle politiche di taglio alla spesa pubblica. Anche nel settore privato, la crisi dell'industria culturale (editoria, musica, cinema) si fa sentire pesantemente, rendendo sempre meno sostenibili quei modelli di business che si fondano esclusivamente su logiche di profitto. Ed è su questo aspetto - vale a dire, sul mancato riconoscimento pubblico del valore sociale di tutte quelle professioni che si fondano sui saperi umanistici - che andrebbe forse spostata l'attenzione, se si vuole cercare di evitare la "fine delle Lettere".