tag:blogger.com,1999:blog-17206617827888355722023-11-15T20:13:46.853+01:00GorettEdit - Academic Publishing NewsAnonymoushttp://www.blogger.com/profile/05579504970664798183noreply@blogger.comBlogger2125tag:blogger.com,1999:blog-1720661782788835572.post-12263124543508284272014-01-29T11:23:00.000+01:002014-01-29T11:26:44.512+01:00Verso una "open review"?<div class="MsoNormal">
<span lang="IT">Il 27 gennaio, <a href="http://www.palgrave.com/home/">Palgrave Macmillan</a>, casa editrice
attiva soprattutto nelle scienze umane e sociali, ha annunciato l’avvio di un <a href="http://palgraveopenreview.com/introduction/">nuovo sistema di peer review</a>
“aperto e trasparente” attraverso cui valutare le monografie di futura
pubblicazione. Per sei settimane, una selezione di dieci proposte editoriali verrà
sottoposta al vaglio della comunità scientifica, intesa nel senso più ampio
possibile: chiunque abbia “qualcosa con cui contribuire” – dallo studente al
professore ordinario – avrà modo di commentare le proposte editoriali e (dove
possibile) alcuni capitoli dei libri. L’unica limitazione sarà che i
commenti – a cui gli autori avranno modo di rispondere in prima persona – dovranno
necessariamente essere firmati con nome e cognome, in modo da garantire
trasparenza ed evitare possibili abusi. Per favorire la più larga
partecipazione possibile, sarà possibile inviare il proprio <i>feedback</i> via Facebook, Twitter o
Wordpress.</span><br />
<span lang="IT"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span lang="IT">Quello di
Palgrave è un esperimento innovativo, anche se con alcune importanti
limitazioni: le proposte editoriali in discussione, infatti, sono state
sottoposte ad una valutazione preventiva da parte non solo della casa editrice,
ma anche di alcuni peer-reviewers tradizionali (scelti dalla redazione e anonimi);
inoltre, gli autori hanno già sottoscritto un contratto con Palgrave, per cui
il processo di open review non avrà lo scopo di decidere se pubblicare o meno le
monografie, ma semplicemente di migliorarle ulteriormente, avviando una
discussione pubblica. Infine, l’iniziativa ha un carattere sperimentale
ed è di durata ben delimitata: un’estensione oltre le sei settimane di prova
non è al momento in programma. <o:p></o:p></span><br />
<span lang="IT"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span lang="IT">Uno dei meriti di
questo esperimento è quello di indurre a una riflessione sui limiti del processo
di peer-review tradizionale – processo affermatosi da molti decenni a livello
internazionale, ma che solo di recente ha preso campo in Italia, <a href="http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Tempo%20libero%20e%20Cultura/2009/06/peer-review.shtml">venendo
spesso dipinto come una sorta di panacea per i mali dell’accademia più tradizionalista
e provinciale</a>. All’apparenza, la peer-review funziona in un modo piuttosto
semplice: ogni qual volta la redazione di una rivista, o di una casa editrice,
riceve una proposta per una monografia o un articolo, la sottopone al vaglio di
alcuni esperti (in genere due o tre), che ne valutano la solidità e
suggeriscono se pubblicarla (e nel caso, con quali modifiche) o meno. Il
processo di peer-review, se da un lato sembra rendere le decisioni editoriali meno
arbitrarie, <a href="http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1420798/">dall’altro
non è garanzia assoluta di qualità o “oggettività”:</a> non solo c’è tutta <a href="http://www.sciencemag.org/content/342/6154/60.full">una casistica</a> di
articoli accettati per la pubblicazione a dispetto di evidenti errori e
scopiazzature; ma soprattutto, il fatto che i reviewers sono in genere scelti
tra gli studiosi già affermati in un determinato campo implica che <a href="http://www.nature.com/ni/journal/v4/n4/full/ni0403-297.html">le proposte
più iconoclaste possano essere rigettate per partito preso</a>, a dispetto
della loro validità – un problema che sembra particolarmente pressante nel
campo delle scienze umane e sociali, in cui le scelte interpretative sono tanto
fondamentali quanto soggettive. <o:p></o:p></span><br />
<span lang="IT"><br /></span></div>
Allargando la
discussione a un pubblico più ampio (e non selezionato a priori), la open
review proposta da Palgrave potrebbe essere un sistema per ovviare in parte a
questi problemi. In realtà, nel campo delle scienze naturali, esperimenti di
questo genere sono già stati avviati: già nel 2006, la rivista Nature aveva
lanciato un primo tentativo di <a href="http://www.nature.com/nature/peerreview/debate/nature05535.html">open
review</a>, con tassi di partecipazione a dire il vero non molto incoraggianti
(solo il 5% degli autori prese parte all’iniziativa, e poco più di metà degli
articoli vennero effettivamente commentati). Un’altro dubbio che sorge
spontaneo è quello relativo non tanto alla quantità, ma alla qualità dei commenti:
vista il carattere spesso aggressivo delle discussioni su internet, l’obbligo
di pubblicare il proprio nome sarà sufficiente ad evitare forme di <a href="http://www.theguardian.com/books/2010/apr/23/historian-orlando-figes-amazon-reviews-rivals">“trollaggio”
accademico</a>? E infine, fino a che punto gli autori delle monografie (già
certi della pubblicazione) saranno poi disponibili a revisionare il proprio
lavoro sulla base della open review? Grazie all’esperimento lanciato da
Palgrave, forse tra sei settimane ne sapremo qualcosa in più.Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/05579504970664798183noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1720661782788835572.post-28947550790649507782013-06-27T13:49:00.002+02:002013-06-27T13:49:44.548+02:00Sulla crisi degli studi umanistici"Addio facoltà umanistiche, non servite più, i giovani disertano le aule di Storia, di Filosofia, di Lettere, per non parlare di Sociologia." Questo è il grido d'allarme lanciato oggi sulle colonne di Repubblica. I dati sono effettivamente sconfortanti: in Italia, si parla di un calo del 26,8% nelle immatricolazioni a corsi di laurea umanistici nell'ultimo decennio, a fronte di un dato sostanzialmente stabile (-3,3%) per l'area scientifica. Si tratta di una tendenza che va ben oltre i confini italiani: <a href="http://online.wsj.com/article/SB10001424127887324069104578527642373232184.html?mod=WSJ_hps_LEFTTopStories">negli Stati Uniti l</a>a percentuale dei laureati nel settore umanistico è calato dal 14% del 1966 al 7% del 2010; in Inghilterra, <a href="http://www.ucas.com/data-analysis/data-resources/data-tables/subject">il numero di domande di iscrizione</a> a corsi di carattere storico-filosofico è calato di quasi il 5% tra il 2007 e il 2012, mentre quelle a corsi in business sono aumentate del 9%. Alla crisi delle iscrizioni corrisponde una drastica riduzione del numero delle cattedre, dovuta al mancato turnover o addirittura - specialmente all'estero - <a href="http://supportclassicsatrhul.wordpress.com/">al tentativo di chiudere interi dipartimenti</a>.<br />
<br />
Questa crisi ha già da qualche anno innescato un dibattito piuttosto intenso, specie nel mondo anglosassone, ad esempio attraverso la campagna <a href="http://anticuts.com/2010/11/29/humanities-and-social-sciences-matter/">Humanities matter</a> o gli interventi di intellettuali di spicco come <a href="http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=6uSo3OPGKWw">Stefan Collini</a>. Alla radice della crisi dei saperi umanistici ci sarebbe l'affermazione di una concezione neoliberista dell'istruzione universitaria, per cui l'unico valore di una laurea sarebbe quello economico (in termini sia di opportunità lavorative che capacità di generare profitti). Questa mentalità sarebbe rafforzata, tra i futuri studenti, dai costi sempre più elevati dell'istruzione stessa (prima di tutto a livello di tasse universitarie), che farebbero di una laurea umanistica un "investimento" poco remunerativo.<br />
<br />
L'argomento classico in difesa degli studi umanistici è quello che ne sottolinea l'importanza per lo sviluppo di <a href="http://humanexperience.stanford.edu/why">creatività, flessibilità mentale e spirito critico</a>. Le Humanities sarebbero imprescindibili per l'affermazione di principi fondamentali, primo fra tutti la democrazia. A questa riflessione sul valore intrinseco dei saperi umanistici si associa spesso la considerazione per cui i corsi di laurea umanistici andrebbero concepiti in forma "disinteressata" (in quanto aventi un valore in sé), non "utilitaristica" (per cercare un guadagno, o anche semplicemente un lavoro). Si tratta di una prospettiva, quest'ultima, che rischia però paradossalmente di trasformare gli studi umanistici in una "riserva indiana" per giovani di estrazione sociale medio-alta, come già avviene <a href="http://www.guardian.co.uk/education/2010/sep/26/arts-degrees-wealthy-humanities-university">in Inghilterra</a>.<br />
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In realtà, una delle questioni centrali che viene spesso trascurata è quella della crisi di quelle professioni intellettuali che sono (anzi, sarebbero...) lo sbocco naturale per chi decide di laurearsi in una disciplina umanistica: l'insegnamento nelle scuole medie e superiori prima di tutto, ma anche in biblioteche, musei e archivi - tutte istituzioni fortemente colpite dalle politiche di taglio alla spesa pubblica. Anche nel settore privato, la crisi dell'industria culturale (editoria, musica, cinema) si fa sentire pesantemente, rendendo sempre meno sostenibili quei modelli di business che si fondano esclusivamente su logiche di profitto. Ed è su questo aspetto - vale a dire, sul mancato riconoscimento pubblico del <i>valore sociale</i> di tutte quelle <i>professioni</i> che si fondano sui saperi umanistici - che andrebbe forse spostata l'attenzione, se si vuole cercare di evitare la "fine delle Lettere".Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/05579504970664798183noreply@blogger.com0